CONTIENE SPOILER SULL’OPERA
A study in red, tradotto come Uno studio in rosso in italiano, di Sir Arthur Conan Doyle è il primo romanzo sulle avventure del celebre personaggio di Sherlock Holmes, pubblicato per la prima volta nel 1887 sulla rivista Beeton’s Christmas Annual assieme a storie di altri autori e senza riscuotere grande successo; oggi invece è famoso all’inverosimile.
Se dicessi di non aver apprezzato questo libro mentirei, ma allo stesso tempo se affermassi di averlo trovato un capolavoro, o di essermi goduta appieno la lettura, sarebbe una grossa bugia: ci sono molti difetti in questo primo volume che, spero, vedrò diminuire man mano che avanzerò nel profondo di questa “serie” di libri.
In primis, le deduzioni del mitico Sherlock Holmes alle volte risultano essere piuttosto… superficiali? È una cosa che si nota soprattutto alla fine del romanzo, quando si riavvolge il nastro e il consulente investigativo spiega a John come è riuscito a comprendere tutta la dinamica del caso. « Il furto non doveva essere stato il movente del delitto, poiché sembrava che nulla fosse stato sottratto al morto. […] Si trattava di politica, allora, oppure c’era di mezzo una donna? » … oppure si trattava delle altre centomila ipotesi possibili? Non mi sembra così scontato che tra due uomini, uno assassinato e l’altro assassino, l’unico conflitto possibile che possa essere intercorso fosse politico o amoroso; e questo va al di là di una mentalità che naturalmente è andata oltre il 1800 (ignorerò infatti volontariamente l’eteronormatività della situazione, perché non mi aspetto che uno Sherlock Holmes edwardiano vada a pensare all’ipotesi dell’omosessualità): è una semplice questione di logica. Non potrebbero avere delle faccende economiche in sospeso (es.: a causa tua sono al verde, quindi ti ammazzo; ho un debito con te e non posso/voglio saldarlo, quindi ti ammazzo)? Non potrebbe, uno dei due, avere un desiderio di vendetta spinto da motivi familiari (es.: hai ucciso mio padre, io ammazzo te)? E queste sono solo le prime due ipotesi che mi sono venute in mente, ma la dichiarazione per la quale politica e faccende di cuore erano gli unici due moventi possibili per quel delitto mi ha lasciata veramente perplessa. Quindi, per quanto l’idea del ragionamento analitico o la teoria della deduzione esposta ne Il libro della vita possano essere brillanti, penso che tutta la faccenda sarebbe potuta essere narrata in modo migliore, soprattutto perché va a cozzare con quella visione che tutti hanno di Sherlock (e che lui stesso ha di sé): « ha la passione delle cognizioni complete ed esatte ».
Comprendo infatti comunque che per Sherlock « tutta la vita è una gran catena la cui natura si rivela a chiunque ne osservi un solo anello »; condendo anche questa convinzione con la sua arroganza e la sicurezza che ha nei confronti delle proprie abilità è giusto e ovvio che egli non dubiti delle proprie deduzioni e del proprio intuito, ma mi sembra eccessivo riporre in esse una fiducia tale da delineare un quadro semi-completo senza avere tutte le prove. È anche vero che Sherlock è dedito al proprio lavoro e ha per esso una passione estenuante, tanto da dimenticare l’esistenza del resto del mondo mentre indaga; mette in gioco tutto per venire a capo dei casi che gli vengono affidati e non espone le sue teorie o le sue tesi senza esserne del tutto certo, è pronto persino ad andare dietro a una carrozza nel bel mezzo della strada pur di appurare le sue ipotesi; quell’attitudine, tipica dei Serpeverde (se dovessi associargli una Casa di Hogwarts sarebbe sicuramente quella) che lo porta a compiacersi dell’attenzione altrui e dei complimenti — soprattutto se davvero sentiti, come quelli di John — è la stessa che lo spinge a volere un riconoscimento ufficiale per le proprie azioni dalla stampa e da Scotland Yard (anche se, proprio alla fine del libro, ammette che in fondo può definirsi soddisfatto anche solo per aver lavorato a un caso così interessante, al di là delle lusinghe della platea). È giusto che una persona per la quale « le nostre idee devono essere grandiose quanto la natura, se devono interpretare la natura stessa » non vada tanto per il sottile quando crede di essere sulla strada perfetta per la risoluzione di un mistero.
Nella matassa incolore della vita corre il filo rosso del delitto, e il nostro compito consiste nel dipanarlo, nell’isolarlo, nell’esporne ogni pollice.
Egli vede un collegamento tra i casi di cui si occupa e quelli dei quali si è già occupato, per cui la convinzione che « non c’è niente di nuovo sotto al sole, tutto è già stato fatto prima » lo porta forse a sottovalutarne la complessità. Ha anche senso, contemporaneamente, il suo pensiero per il quale « quando un fatto sembra smentire una lunga catena di deduzioni, si rivela invariabilmente passabile di un’interpretazione diversa »: se da un lato è giusto mettersi in discussione, fosse anche per un minimo dettaglio, dall’altro comprendo che possa apparire stupido buttare al vento un’intera teoria solo perché un elemento non sembra collimare; la fiducia che ripone nelle proprie capacità ha permesso a Sherlock di non farsi vincere dal dubbio e trovare così un’altra spiegazione per il pezzo mancante, peraltro corretta. A questo proposito una riflessione che ho molto gradito è quella circa la difficoltà dei casi in relazione a quanto sono intricati: secondo Sherlock infatti « è un errore confondere la stranezza con il mistero »: più un delitto sembra banale più sarà difficile rintracciare tutti gli elementi per risolverlo, mentre le circostanze insolite ed eccezionali facilitano questo processo.
«Vede» mi spiegò «secondo me, il cervello d’un uomo, in origine, è come una soffitta vuota: la si deve riempire con mobilio di nostra scelta. L’incauto v’immagazzina tutte le mercanzie che si trova tra i piedi: le nozioni che potrebbero essergli utili finiscono a non trovare più spazio o, nella migliore delle ipotesi, si mescolano e si confondono con una quantità d’altre cose, cosicché diviene assai difficile reperirle. Viceversa lo studioso accorto seleziona accuratamente ciò che immagazzina nella soffitta del suo cervello. Ci mette soltanto gli strumenti che possono aiutarlo nel lavoro, ma di quelli tiene un vasto assortimento, e si sforza di sistemarli nell’ordine più perfetto. È un errore illudersi che quella stanzetta abbia le pareti elastiche e possa ampliarsi a dismisura. Creda a me, viene sempre il momento in cui, per ogni nuova cognizione, se ne dimentica qualcuna acquisita in passato. Di conseguenza è importantissimo evitare che un assortimento di fatti inutili possa spodestare quelli utili.»
Sherlock Holmes ci insegna quanto sia importante prenderci cura del nostro cervello e quanto possa essere semplice affinare un po’ di più le nostre capacità osservative (non so neanche se sia umanamente possibile arrivare al suo livello, soprattutto perché, come detto, trovo che alcune delle sue deduzioni siano inverosimili, ma vale la pena tentare di avvicinarvici) per renderci realmente conto del mondo attorno a noi, di quanto sia facile averne una cognizione attiva e non passiva prestando solo un po’ di attenzione in più ed evitando di imbottirci la testa di scemenze. Sherlock né ha una laurea in medicina né lavora nel settore di medico forense, eppure conosce molto bene vari rami della scienza, come la chimica e l’anatomia. Io la vedo anche come una pesante critica attualizzabile alla scuola dell’obbligo, che dà agli studenti un sapere così generale e limitato su tanti argomenti senza mai davvero istruirli in maniera completa su almeno uno di questi.
Mi accorgo solo ora di non aver parlato del mitico John Watson, coinquilino e braccio destro di Sherlock. John è la voce narrante del libro ed è il primissimo personaggio a essere introdotto; scopriamo il suo passato: assistente chirurgo del Quinto Reggimento Fucilieri di Northumberland nella seconda guerra afghana, a cui « la campagna portò soltanto guai e disavventure »; quasi al verde, John sta cercando un appartamento che sia alla sua portata nella speranza di poter condurre un’esistenza tranquilla. Buffo, quindi, il modo in cui fin da subito si appassiona alla figura di Sherlock — che gli viene introdotta dal vecchio compagno Stamford —, tutt’altro che tranquilla. John infatti dal primo momento è curioso di scoprire di più su quella personalità strana, che solo guardandolo riesce a dedurre che lui è stato in Afghanistan e che si dimostra ardentemente interessata alla coagulazione del sangue e ad altre faccende chimiche di cui lui poco si intende. John è un uomo umile, a tratti nella media, che inizialmente non può evitare di rimanere seccato dal modo in cui Sherlock si comporta, dalle sue deduzioni così accurate ma apparentemente campate in aria, dalla sua arroganza; tuttavia, a differenza di tanti — polizia inclusa! —, una volta che prende consapevolezza di quanto le abilità del coinquilino siano reali accetta senza alcuna traccia di orgoglio di essergli inferiore intellettualmente e lo ascolta con estremo interesse e con infinita ammirazione. Il rapporto che si instaura tra i due è perfetto, è davvero piacevole da leggere: per quanto alle volte i difetti di Sherlock emergano preponderantemente, sa come farsi perdonare, come scusarsi per quegli sbalzi d’umore che lo caratterizzano in base a cosa ha sotto le mani. John quindi diventa il suo assistente, il suo partner, lavorano sul caso assieme e Sherlock appare piuttosto soddisfatto quando John aguzza l’ingegno e inizia anche lui a sciogliere i nodi dell’intrigo. John si dimostra curioso all’inverosimile e interessato al lavoro dell’amico fin da quando ancora non sapeva esattamente quale fosse; « per chi vuole studiare l’umanità, il soggetto ideale da esaminarsi è l’uomo », proclama e con Sherlock Holmes può senz’altro dire di aver trovato pane per i suoi denti — e al diavolo l’idea della vita tranquilla, che in fondo non ha mai fatto davvero per lui. John tra l’altro dimostra di sapersi ancora emozionare di fronte alla morte, nonostante ne abbia vista parecchia, perché assume sempre nuove facce.
Il contesto della narrazione è poi molto conflittuale storicamente parlando: si nota la corruzione della stampa e la sua attitudine nel prendersela con lo straniero, con i rifugiati politici, con i rivoluzionari, con i liberali… Qualsiasi largo gruppo di persone sembra rappresentare una minaccia e i giornali non si curano di accusare innocenti fintanto che possono trovare un capro espiatorio per i problemi dell’Inghilterra. Vi ricorda qualcosa? Forse la situazione politica italiana — e non solo — attuale? Feroci complottisti sparsi per il paese colgono l’amo che era stato loro tirato, spostando l’attenzione pubblica dalla vera natura del delitto avvenuto. È palese anche quanto la stampa sia di parte: alza in cielo Scotland Yard e i suoi uomini che hanno dato ben poco contributo alla risoluzione del caso e nominano a malapena Sherlock che, in realtà, lo ha risolto; « in questo mondo non conta quello che è fatto […] conta piuttosto quello che si riesce a far credere alla gente di aver fatto » commenta Holmes. C’è una rivalità bella forte tra lui e la polizia, che emerge persino durante l’investigazione, nella quale lui cela alcuni elementi che ha rilevato sulla scena del crimine e loro cercano continuamente di superarlo o di sorprenderlo, per quanto consapevoli di essergli inferiori (inoltre c’è rivalità anche all’interno della polizia stessa, tra Gregson e Lestrade).
Un riferimento sociale che mi è saltato all’occhio è anche quello della rete di senzatetto di Holmes: da una parte è stato divertente e soddisfacente il modo in cui Sherlock si fidava ciecamente di loro e delle loro abilità piuttosto che della polizia, evidenziandone il potenziale, il quale però era da ricollegare anche al loro stesso status, che quindi faceva comodo al consulente investigativo; non c’è perciò nessuna reale intenzione di tirare fuori quei ragazzi dalla strada, per quanto possa pagarli per i servizi che riceve. È una realtà strana che mi ha infuso sentimenti contrastanti.
Una delle maggiori critiche che posso fare al libro riguarda la sua seconda metà: la storia di John e Lucy Ferrier e Jefferson Hope, di Drebber e Stangerson. In altre parole, la storia dei carnefici e delle vittime del romanzo, che però Sherlock e John non conosceranno mai, non nel dettaglio: il racconto delle loro vicissitudini è riservato solo a noi lettori, che lo scopriamo in quanto inserito al centro del libro, dopo la cattura del colpevole e prima della sua incarcerazione. Sinceramente mi aspettavo che sarebbe stato noioso abbandonare Holmes e Watson, ma non lo è stato: la storia ambientata nella Sierra Blanco e poi nello Utah è stata interessante e mi ha anche fatto scoprire cose che non conoscevo (per esempio, riguardo ai mormoni: ne ho ancora una conoscenza piuttosto superficiale, ma ho avuto modo di appurare che alcune cose descritte nel romanzo sono vere e quanto facilmente capiti che nella storia gli stessi soggetti siano vittime e carnefici in periodi diversi). Tuttavia, la mia critica sta nel fatto che sarebbe stato davvero bello scoprirla man mano che leggevo — e non come contorno, senza che neanche risulti essenziale ai fini delle indagini. Stessa cosa vale per la conclusione del libro, dove Holmes “dipana” il filo del delitto ed espone a John quali elementi e in quali circostanze lo hanno abilitato a risolvere il caso: sarebbe stato molto più intrigante vederle spiegate man mano che procedeva l’investigazione.
In breve, la parentesi sul passato si apre con John Ferrier, un uomo temprato, forte, quasi stoico a tratti, pronto a rassegnarsi di fronte all’ineluttabilità della morte ma determinato a combatterla finché ne ha le forze, coraggioso come non mai; un uomo gentile e altruista, anche, che si è preso carico di una bambina, Lucy, i cui genitori facevano parte del gruppo con il quale viaggiava per la Sierra Blanco e che sono deceduti lasciando loro due come unici superstiti; John ha tolto il cibo dalla propria bocca per Lucy e l’ha cresciuta come una figlia, sebbene non ne avesse il dovere e tante altre persone, magari, avrebbero lasciato vincere la fame e l’egoismo e l’avrebbero abbandonata a se stessa. Lucy diventa perciò Lucy Ferrier. I due vengono salvati da un gruppo bello corposo di mormoni, che fin da subito mette in chiaro che li avrebbero fatti aggregare a loro solo a patto che si fossero convertiti e avessero seguito le loro usanze; John acconsente e per molti anni conduce la vita assieme a quelle persone, accettando di vivere come loro tranne che per un dettaglio: non avrebbe preso moglie, o meglio mogli, visto che tutti i maschi adulti del villaggio praticano la poligamia. Non ho nulla contro la poligamia, o per meglio dire contro le relazioni poliamorose in generale, anzi, ma il problema della situazione è che le donne non sembrano avere voce in capitolo nella decisione di sposarsi e che loro, al contrario dei coniugi, di mariti possono averne uno solo.
Lucy cresce bella e forte, coraggiosa, spigliata, un tutt’uno con la natura, vivace e schietta; un giorno, durante una commissione per il padre, incontra Jefferson Hope, il quale fin da subito si invaghisce di lei e fa di tutto per continuare la frequentazione; alla fine anche Lucy si innamora di lui e i due addirittura progettano di sposarsi (certo è che non mi sia piaciuto affatto il modo in cui è stata affrontata la tematica femminile, anche se probabilmente considerando i tempi John è anche molto all’avanguardia come padre e in fondo è palese quanto Jefferson tenga per davvero alla ragazza). Questa cosa non è però ben vista dai mormoni, che cominciano una sorta di persecuzione simil-nazista con lo scopo di obbligare John a dare in sposa Lucy a uno dei ragazzi più o meno della sua età del villaggio, in cambio del fatto che lui non ha mai preso moglie. Comincia quindi una serie di peripezie, in quanto John non ha nessuna intenzione di vendere la figlia a uno qualsiasi di quei tremendi harem; Jefferson ritorna dal suo viaggio per salvare padre e figlia dall’ira dei mormoni e apparentemente riesce a tirarli in salvo, ma alla fine gli basta un momento di distrazione affinché l’uomo venga ucciso e la ragazza rapita e riportata al villaggio. Da questo momento in poi, assistiamo a una vera e propria trasformazione di Jefferson: la sua pazienza, la sua costanza, la sua determinazione, l’instancabile perseveranza non hanno più un’accezione positiva, non sono più al servizio della donna che ama, ma vengono convertiti in armi per preparare la sua vendetta, la quale diventa per lui ossessione, unica ragione di vita.
Le sue abilità (egli è stato pionere in California, esploratore, cacciatore, cercatore di miniere e agricoltore), tuttavia, e questa cosa davvero non mi va giù per quanto sia insensata, gli permettono di mettere in atto vari attentati alla vita dei rapitori di Lucy, che quasi ci rimettono la pelle, e di penetrare in casa della ragazza dopo la di lei morte prematura per sfilarle la fede dal dito, nel rifiuto che venisse sepolta con quella, ma non di provare a portarla via con sé? Avrebbe potuto tentare un nuovo viaggio nel cuore della notte, non dico che avrebbe necessariamente avuto successo ma non comprendo come mai si sia arreso subito all’idea che, semplicemente, avrebbe dovuto vendicare la sua morte, piuttosto che tentare ancora di salvarle la vita.
Scopriamo tutta questa vicissitudine e poi torniamo al presente, a Jefferson che è stato abilmente catturato da Sherlock e che, in tutta tranquillità, si accinge a confessare come e perché ha agito nel modo in cui ha agito, uccidendo Drebber e Stangerson (i due che avevano cercato di contendersi Lucy, uno dei quali l’aveva anche sposata): egli purtroppo sta per morire a causa di una malattia al cervello contratta durante i suoi interminabili viaggi alla ricerca di quegli uomini, quindi non teme il suo decesso più che prossimo, ma anzi adesso è felice e soddisfatto di aver compiuto il suo scopo e poco tempo dopo la sua confessione muore in cella con un sorriso sereno sulle labbra.
Quella poi che è la critica forse più dura che mi sento di rivolgere a questo libro riguarda il modus operandi di Jefferson: egli, in pratica, si sarebbe procurato per entrambi i suoi assassinii una coppia di pillole, una delle quali avvelenata, l’altra identica nell’aspetto ma perfettamente innocua; aveva quindi in mente di scommettere con la sorte durante gli omicidi, facendo scegliere ai due uomini quale pillola prendere e inghiottendo l’altra. Ora, perché mai fare una cosa del genere? No, ma dico, non ha davvero nessun senso: tu campi la tua intera vita con il fine di uccidere questi due tizi, scopri addirittura di aver contratto una malattia a causa del nascondino a cui avete giocato per anni, sai quindi di essere in fin di vita… e piuttosto che semplicemente uccidere i due, ti concedi un cinquanta percento di possibilità? Se posso capire che si sia messo a spiegare come era arrivato lì e perché stava per ammazzarli prima di effettivamente farlo, visto che « non vi è gioia nella vendetta, se il nemico non ha il tempo di capire chi lo colpisce e perché è scoccata la sua ultima ora », trovo che quest’altro elemento sia del tutto insensato: nel caso in cui la prima volta non avesse funzionato, non ne avrebbe ucciso nemmeno uno dei due! E non posso certo bermi il suo « la Provvidenza non avrebbe mai permesso alla sua mano nefanda di scegliere la pillola che non era avvelenata ». Ah, ma davvero? Però la Provvidenza ha permesso che il padre di Lucy morisse come un cane e che lei venisse rapita, probabilmente stuprata e che poi morisse nel giro di pochissimo tempo? Che senso aveva affidarsi a qualcosa di tanto incerto proprio nel momento in cui il suo scopo poteva giungere a compimento? Mi è sembrato un espediente così stupido, per quanto estremamente affascinante come concetto, da rovinare l’intero caso.
Pochi altri difetti e considerazioni: i dialoghi nei quali citano nel dettaglio altri dialoghi sono decisamente irrealistici persino per la prosa dell’Ottocento, a un certo punto della narrazione John e Sherlock ignorano quasi infastiditi chiari riferimenti (che poi era una finzione progettata da Jefferson è un altro discorso perché loro non lo sapevano) a violenza domestica e rivolgono alcune frasi davvero pungenti nei confronti di una povera vecchietta, adoro il modo in cui Doyle ha pian piano delineato il rapporto tra Holmes e Watson e trovo che le scene dove ci sono solo loro due e si approfondisce il loro legame siano decisamente le migliori; inoltre un’altra questione è quella religiosa: tutti i personaggi, grossomodo, persino Sherlock, fanno riferimento a Dio, persino John Ferrier, che pare piuttosto laico, neanche ricorda come si prega, dà per scontata la sua esistenza; non è né una critica né un appunto, solo un’osservazione, qualcosa che mi ha fatto riflettere magari sul contesto in cui è ambientata la storia, che vedeva il Cristianesimo, o comunque la religione e la figura di Dio, come qualcosa di assodato, scontato, necessariamente reale.
« Non è facile mettere in parole una pura e semplice sensazione »: le parole di Stamford rappresentano perfettamente ciò che ho pensato quando ho finito il libro, con tutte le riflessioni e i pensieri che da esso sono scaturiti. Ci ho messo infatti un bel po’ di tempo prima di concludere questa recensione, cosa che mi dispiace, perché speravo (avendo preso un bel po’ di accurati appunti) di farlo prima. Ma non importa. Meglio tardi che mai.
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